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La finta inclusione delle organizzazioni oggi

La finta inclusione delle organizzazioni oggi

Oggi si fa un gran parlare dei temi di Diversity & Inclusion. Le organizzazioni hanno inserito nelle loro agende molti interventi che, teoricamente, mirano a migliorare l’inclusione all’interno dei team di lavoro, ma che, nella pratica, spesso si rivelano solo di facciata.

Nella nostra esperienza riscontriamo 3 limiti principali alle politiche di inclusione che vengono messe in atto dalle organizzazioni:

1) Le etichette

Ci si concentra su determinati “layers” di diversità (giovani, disabili, neo-mamme…) invece di puntare a creare e rinforzare una cultura dell’unicità dove tutti i layers di diversità possano sentirsi inclusi, ad esempio la diversità di pensiero cognitivo, la diversità di organizzazione del lavoro… Creare un ambiente dove ci sia amore per ogni singola unicità dell’essere umano è completamente diverso dal ridurre il tema dell’inclusione a 4-5 etichette che contraddistinguono determinate categorie di persone.

2) Il genitore normativo

Gli interventi proposti, per parlare con un linguaggio proprio dell’analisi transazionale, attivano il “genitore normativo”. Viene detto alle persone “cosa si può o non si può fare” o “cosa si può o non si può dire” in un’ottica che è più vicina al politically correct che al voler veramente cambiare le cose.

Le aziende pensano e disegnano interventi per migliorare l’inclusione spesso con l’unico scopo di essere compliant alle normative o, ancora peggio, per ottenere certificazioni.

Gli interventi sono freddi, ad esempio, si lavora molto sulla comunicazione con opuscoli informativi o al limite training molto normativi, che impongono determinate regole.

Il risultato sono manager che, come macchinette, aprono interventi con “Buongiorno a tutte e a tutti”, espressione che oggi va molto di moda, ma che nel loro cuore non hanno minimamente integrato il tema del valore della differenza di genere.

3) Il metodo

Spesso gli interventi di Diversity & Inclusion non sono per niente inclusivi nel metodo e nel processo, ovvero sono pensati da 4 manager di 50 anni, uomini, o altrettanti consulenti chiusi in una stanza. Gli interventi dunque non sono ideati da team inclusivi che dovrebbero, invece, coinvolgere già nella fase di design i destinatari stessi delle azioni.

Il risultato di questi errori, sommati, è che spesso le persone non ne possono più di sentire parlare di Diversity & Inclusion, perché il come viene affrontato questo tema risulta incoerente, incongruente, inefficace e spesso al limite della presa in giro.

L’inclusione (autentica)

Ciò che sfugge è che, al di là dell’essere politically correct, dell’essere compilano alle normativi e dell’essere “fighi” perché si fanno certe cose, generare una cultura veramente inclusiva ha un impatto non solo sul benessere di ogni singola persona, ma anche sulla performance e sui risultati di business.

Il tema, dunque, non dovrebbe essere limitato a 3-4 interventi di facciata pensati da una funzione spesso creata ad hoc e che non ha nessun legame con il business, ma dovrebbe diventare centrale nella mente di ogni manager a tutti i livelli dell’organizzazione.

Questo ovviamente implica un cambiamento culturale che richiede un investimento ben più ampio dello stampare 4 opuscoli o del mettere in piedi un training.

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