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La competizione “sana” è solo con noi stessi

La competizione "sana" è solo con noi stessi

di Irene Morrione

Durante i percorsi di coaching nelle aziende mi capita spesso di ascoltare storie di persone che vivono nell’abitudine di paragonarsi agli altri.

Di solito questa abitudine non è solo relativa al mondo del lavoro, ad esempio quando ci paragoniamo al collega che avuto quella promozione che tanto desideravamo, oppure, al collaboratore che è stato promosso prima di noi, ma ha radici molto più lontane. Queste persone già nell’esperienza scolastica e universitaria sono state abituate a definire il proprio valore rispetto ai risultati ottenuti da qualcun altro.

In generale la società e, in particolare modo, il mondo delle organizzazioni, alimentano questo genere di competizione, pensando erroneamente che possa avere un impatto positivo sulla performance dei singoli.

In realtà in un gruppo di lavoro più si alimenta la competizione più il clima diventa faticoso e le relazioni difficili. Le persone iniziano a ragionare in un’ottica “io vinco, tu perdi”.

Questo tipo di ragionamento nel lungo periodo porterà a rafforzare la logica dell’orticello, dove gli obiettivi individuali sono più rilevanti di quelli del gruppo, inoltre, da un punto di vista del benessere della persona, il continuo paragonarsi agli altri aumenta la sofferenza legata alla percezione di non essere mai abbastanza.

La competizione "sana" è solo con noi stessi

Nella vita ci sarà sempre qualcuno che ha qualcosa più di noi o che è stato più bravo di noi, il paragone è un gioco a perdere, sia per il singolo, sia per il gruppo, sia per il sistema azienda.

L’altro aspetto collaterale del paragone è quello di appiattire tutti verso un unico metro di giudizio: la diversità non è paragonabile e se si ragione in un’ottica di unicità è molto difficile riuscire a fare confronti.

Chi cade in questa trappola è spesso frustrato e ha perso di vista quello che è stato il suo di percorso, i risultati che ha raggiunto e le sfide che ha vinto. Quando queste persone iniziano a cambiare il focus della loro attenzione, spostando lo sguardo dagli altri a se stessi, iniziano a vivere una competizione più utile e intelligente, quella che li spinge a migliorarsi, a oltrepassare i propri limiti misurando il successo rispetto alle proprie potenzialità e non rispetto ad un parametro universale che in fondo non esiste.

Scoprire che l’unica competizione possibile è solo con se stessi porta le persone a valorizzare le proprie unicità ad utilizzare al massimo i talenti inespressi con un impatto diretto sul benessere e sulla performance. Questo è quello che andrebbe incoraggiato nelle organizzazioni.

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